Alla palazzina Liberty di Milano, per il consueto appuntamento a ricordare le 5 Giornate della città, questa mattina ho ascoltato un concerto di una certa qualità. E’ stata una mattinata che mi ha particolarmente provato perché ho ricordato il M° Peter Maxwell-Davies e la sua cura nell’ascoltare qualunque concerto, quella educazione tipicamente inglese ma che aveva in sé la grande esperienza di chi è entrato in qualunque sala del mondo. Come ebbi da dire ai tempi non aveva avuto un concerto nello spazio infinito solo perché non sarebbe stato interessante il vuoto senza suono.
Il concerto mi ha provato perché un altra persona a me cara oggi veniva eseguita. Fatemi però procedere con ordine.
L’organico a disposizione era un orchestra d’archi a supporto, o di un violino, o di una chitarra e di un vibrafono, o di un pianoforte, direi in forma concerto, o nel caso di Donatoni un vero ensemble d’archi.
Quattro compositori, due viventi e due che ci hanno lasciato pochi anni fa, ci hanno regalato delle emozioni miste, principalmente dovute a quattro tipi di scrittura diverse. E’ sempre così strano vedere artisti che hanno in comune lo stesso conservatorio (quattro hanno studiato, uno insegnava e uno insegna oggi al Verdi; tre hanno studiato con uno e potrei andare avanti ancora) possano percorrere strade esteticamente tanto diverse. In realtà si è trattato di un concerto strano anche per altri motivi. Ecco perché:
Nel suo breve intervento, il compositore Roberto Andreoni ha accennato a quali fossero le proprie priorità in questo concerto ma ad un ascolto più attento ti chiedi inevitabilmente come mai tali priorità non si siano evolute in maniera diversa. Ormai non è più epoca per vergognarsi di scrivere un lavoro che evochi melodie, anche se senti la presenza di Franco Donatoni a fianco, ma ecco che si svela in breve la sua intenzione. Il titolo “Sacred Folk Song” lascia intendere che la melodia avrà un ruolo fondamentale in questo lavoro. Troppo facile ricordarsi di come le Folk abbiano donato a Berio una luce diversa. Però devo ammettere che il lavoro svolto da Berio è stato davvero un coacervo di informazioni che analizzavano la musica di folclore da una certa visuale del compositore. Ed ecco quindi cosa mi è mancato in questo lavoro: avrei voluto davvero sentire il compositore dirci la sua. Inoltre alcune zone mi è parso richiamassero l'”effetto” fine a se stesso, senza cognizione di costrutto, cosa che personalmente non mi piace (almeno in tale contesto) tuttavia mi riservo di dare uno sguardo alla partitura nel caso le orecchie mi avessero tradito. Per quanto mi riguarda è come aver bevuto un buon bicchiere d’acqua. Piacevole e niente di più.
La signora Bettinelli, intervenuta con la sua eleganza in un breve commento, sosteneva che il marito non amasse particolarmente il “Concerto” per chitarra, orchestra d’archi e vibrafono che ho ascoltato oggi. Io sinceramente ho trovato in questo pezzo del Maestro Bruno Bettinelli la sua voglia di scrivere, il suo stile e l’uomo che era. Anche se un po’ infastidito da un esecuzione poco brillante, avrei riconosciuto comunque la paternità di questo lavoro. Inoltre il brano era ben esposto e di chiara identità. Davvero piacevole.
La mancanza di Donatoni ad un concerto. La seconda parte del concerto si apriva con gli autori che hanno seguito la filogenesi musicale europea più da vicino. Parlare d’avanguardia oggi mi fa davvero sorridere, ma i parametri di questo concerto sono improvvisamente diventati importanti. La seconda parte si apre con un fantasma divertito, con un lavoro che forse non amava particolarmente ma che, nonostante si avvicini a un ideologia diversa, è strutturato da quella enorme esperienza di cellule vive che collaborano e si passano messaggi e che, alla luce della propria vita maturata, si modificano in un ramificarsi di informazioni dettagliate. Un lavoro che scuote la coscienza, bello e vasto. Del resto stiamo parlando di Franco Donatoni, non ricordo di un suo brano che mi abbia lasciato indifferente.
Per Alessandro Solbiati, ecco l’altra persona a me cara, invece si è trattato di ripercorrere i Sogni (Yume) di Akira Kurosawa. Il compositore ci ha squisitamente spiegato che per questo lavoro ha ripercorso il sogno “Corvi” nel quale il protagonista entra nella famosa tela di Van Gogh, ritrovandosi immerso in essa. La tela su cui sognare in questo caso erano alcuni degli interludi per pianoforte scritti dal M° Solbiati tra il 2000 ed il 2006. Mi auguro davvero ne arrivi un altra serie presto, magnifici! La “Promenade” di Solbiati richiama cinque di questi interludi e ne amplifica il valore cullandoli tra i suoni di archi ben studiati nel registro e nella funzione. In particolare mi è piaciuta la zona dedicata ai bambini di Beslan, davvero oscura ma commuovente, con timbri del pianoforte che tuffandosi, si immergono nell’oscurità dei contrabbassi. Consiglio davvero l’acquisto dei suoi interludi, in attesa che si possa godere di questa Promenade per pianoforte ed orchestra d’archi anche in casa.
Infine vengo all’esecuzione, parte più difficile di questo articolo. Rossella Spinosa, compositrice e pianista milanese che conosciamo da tanto tempo, spicca in un interpretazione morbida, “dissonante con il temperamento degli interludi di Solbiati”, … direi questo se fossero stati eseguiti solo al pianoforte. In realtà la scelta di un esecuzione di questo tipo mi è sembrata davvero interessante nel contesto di un orchestra d’archi che si muoveva ed attingeva timbri dal suo strumento. Davvero la più interessante esecutrice della giornata.
Gli altri esecutori solisti, non mi hanno lasciato particolarmente il segno. Un buon Raphael Negri al violino ed un Leopoldo Saracino alla chitarra non mi hanno coinvolto, nonostante l’importanza del proprio ruolo. Anche l’orchestra, se pur piena di elementi autorevoli, non sembrava in forma. Non voglio pensare sia colpa del direttore, il M° Alessandro Calcagnile, che già altre volte ho apprezzato in alcune sue scelte esecutive. Penso possa esserci stato o un problema con la durata delle prove o un problema di un orchestra non particolarmente a conoscenza di questi lavori (però in questo caso il lavoro di Alessandro Solbiati, che era in prima esecuzione assoluta, ne avrebbe dovuto pagare queste conseguenze e invece è stato eseguito meglio di altri brani). Nonostante ciò, gli attacchi erano quasi tutti sicuri e, a parte qualche dimenticanza importante (davvero non posso più vedere queste cose), alcune sezioni davvero difficili sono state eseguite molto bene. Probabilmente ciò che mi è mancato di più è stata la mancanza del colore dell’orchestra. Io sono della scuola che si possa davvero sbagliare di più se questo ci porta ad ottenere il colore definito in un orchestra.
Ma alla fine, nonostante le critiche pensate e ora scritte, il mio pensiero è tornato a Peter Maxwell-Davies e mi ha fatto piacere ricordarlo e immaginarlo di nuovo seduto al mio fianco, ad ascoltare assieme ancora una volta stili diversi e per la prima volta assieme, il lavoro di un altro insegnante a cui devo molto.